Memorie di Fausto Lorenzi

Un breve racconto di chi ha avuto l’opportunità e il merito di provare diverse esperienze in diverse montagne nel Mondo, di chi così ha vissuto il cambiamento di mentalità e di pratica dell’arrampicata sportiva.

“Questo scritto è la mia personale testimonianza di un ventennio (primi anni Sessanta-fine anni Settanta), nel quale ho vissuto il passaggio dell’arrampicata tradizionale di un tempo a quella sportiva moderna di oggi. Questa evoluzione è stata possibile grazie all’innovazione tecnologica delle attrezzature e al cambiamento di mentalità degli scalatori. Farò riferimento anche ad alcuni personaggi ai quali sono molto grato, che, con il loro esempio e insegnamento, mi hanno aiutato a crescere e maturare nell’ambiente della montagna.

Sono nato nel 1949 in un paesino del Trentino, alla periferia di Rovereto. Abitavo vicino ad una palestra di roccia, frequentata da forti arrampicatori, che andavano ad allenarsi per poi salire le vie lunghe delle Dolomiti. Fu lì che con l’amico coetaneo Sergio Martini iniziai a mettere le mani sulla roccia e ad essere preso dalla passione per l’arrampicata.

Nei primi anni Sessanta possedevamo una corda di canapa, qualche moschettone di ferro, qualche chiodo fatto nell’officina dello zio di Sergio, un martello e avevamo ai piedi un paio di scarponcini. Tenevamo nascosto questo nostro prezioso materiale per non far sapere ai nostri genitori come trascorrevamo il tempo libero. Alla corda ci si legava con un’asola in vita e la sicura si faceva a spalla, come pure la discesa in corda doppia.

Ricordo l’emozione e il piacere di quando Graziano Maffei, detto Feo, mi chiese di accompagnarlo a chiodare una nuova via di più tiri. Rammento pure la mia prima salita da capocordata: mi trovavo al soggiorno estivo della parrocchia del mio paese in Val di Fassa e volevo salire sulla Stabeler alle Torri del Vajolet. Alla mia richiesta il prete, che ci assisteva, acconsentì a patto che anche lui fosse della partita.

A metà degli anni Sessanta, non avendo voglia di proseguire gli studi, mi trovai nella necessità di cercare un lavoro. Fu così che l’Esercito mi diede l’opportunità di realizzare il mio sogno “Montagna a tempo pieno”. Non ancora diciassettenne, mi arruolai negli Alpini, finendo in un distaccamento a Tarvisio, dove per un anno ebbi modo di conoscere e salire le cime delle Alpi Giulie con l’apertura di una via all’Ago di Villaco.

A diciotto anni arrivai ad Aosta per frequentare un corso di alpinismo presso la Scuola Militare Alpina e diventai istruttore militare. Conseguito il titolo, fui chiamato a far parte del ristretto gruppo della Scuola stessa. L’impegno principale era dedicato all’insegnamento dello sci e dell’alpinismo ai corpi militari degli Alpini di ferma permanente italiani e anche stranieri. Mi piaceva molto trasmettere ad altri ciò che altri avevano trasmesso a me. Nel tempo libero andavo ad arrampicare per conto mio, coltivando sempre di più questa mia passione.

Le attrezzature miglioravano, le ditte producevano materiali più nuovi, più leggeri e affidabili: i primi imbraghi, corde in fibre sintetiche, moschettoni in leghe leggere, piccozze e ramponi più tecnici. Si inventarono sistemi di sicurezza più efficaci, usando moschettoni come freni e autobloccanti, sostituiti in seguito da appositi attrezzi meccanici, quali piastrine, secchielli, otto… che permettevano di assicurare sugli ancoraggi delle soste anziché a spalla.

Con Virginio Epis, mio maestro prima, e collega e compagno poi, ho salito alcune vie impegnative nel Gruppo del Monte Bianco, tra cui la prima integrale della Cresta Innominata al Monte Bianco, attaccando alla via Ottoz all’Aiguille Croux. Ho fatto qualche esperienza invernale, come la via Stenico-Navasa al Campanil Basso in Brenta, dove ho avuto un congelamento ai piedi, e ho aperto qualche nuovo itinerario come la Via Lorenzi alla Becca di Moncorvé nel gruppo del Grand Paradiso.

Tornavo talvolta alle mie montagne originarie, le Dolomiti, per fare ascensioni con gli amici di gioventù, preferendo di solito i più bei itinerari classici. Bisognava comunque essere ben allenati e preparati psicologicamente perché le protezioni lungo i tiri di corda erano rare e spesso aleatorie. Di conseguenza non si doveva assolutamente pensare di poter cadere.

La difficoltà massima di allora era il sesto grado in libera e il sesto superiore in artificiale, quando per progredire ci si attaccava anche ai chiodi e si utilizzavano le staffe. Iniziarono poi a vedersi i primi chiodi a pressione, che si potevano utilizzare dove non c’erano fessure: bastava fare un foro con un perforatore a mano. Ci fu allora chi pensò di aprire itinerari a “goccia d’acqua” in parete, con una serie di chiodi uno di seguito all’altro; itinerari beffardamente chiamati dai tradizionalisti “scale per galline” o “lavori da muratore”. Fortunatamente questa moda durò poco e limitatamente alle Dolomiti.

Nel 1973 ebbi la possibilità di andare per la prima volta in Himalaya, partecipando alla prima spedizione italiana all’Everest. Eravamo quasi tutti militari, appartenenti alle varie forze armate. Per me non fu una bella esperienza alpinistica, perché si doveva sottostare agli ordini del capospedizione Guido Monzino, senza potersi esprimere né nelle idee né nelle proprie capacità. Questa spedizione mi ha comunque permesso di vedere e conoscere montagne e genti nuove, che mi hanno affascinato, tanto da farmi tornare regolarmente ancora oggi in quei bellissimi luoghi. Mi è rimasto il rammarico di non essere stato il compagno di Virginio quando lui salì in vetta, non solo per la cima in sé, ma perché questo sarebbe stato il coronamento di un percorso fatto insieme in montagna. Per me è sempre stato importante condividere con gli amici le esperienze a cui tengo particolarmente.

Ho avuto anche l’opportunità di diventare Istruttore Nazionale di Alpinismo del CAI, titolo che mi ha consentito, insieme ad alcuni collaboratori, di occuparmi per alcuni anni della direzione tecnica della Scuola di Alpinismo Albert Deffeyes del CAI di Aosta, dalla quale sono passati diversi giovani, alcuni dei quali sono diventati guide alpine.

Nel 1975 venni invitato a partecipare alla spedizione nazionale del CAI alla parete sud del Lhotse, con a capo spedizione Riccardo Cassin. Mi sentii molto onorato di far parte di quel gruppo di forti alpinisti e, giunto al cospetto della parete, ne rimasi impressionato. Le difficoltà e la pericolosità della via scelta non ci permisero di arrivare oltre la quota di 7.500 metri: era un obiettivo ambizioso e prematuro per quei tempi. Fu comunque una grande esperienza anche dal lato umano: eravamo una squadra affiatata e chi più ne aveva più dava.

Tornato dalla spedizione, decisi di cambiare vita. Con un po’ di rimpianto per i bei anni spensierati trascorsi sempre in giro per i monti, lasciai la Scuola Militare Alpina e decisi di dedicarmi all’attività di Guida Alpina e Maestro di sci, dopo averne conseguito i titoli.

Durante il periodo militare il mio lavoro consisteva nell’insegnamento e formazione alla montagna dei militari. Altra cosa era fare il lavoro da Guida Alpina: il rapporto con i clienti era diverso, ma altrettanto gratificante. Successivamente divenni Istruttore ai corsi degli aspiranti Guide Alpine. A riguardo voglio ricordare due grandi figure del momento, che tanto hanno dato all’alpinismo, alle Guide valdostane e al Soccorso Alpino. Mi riferisco a Franco Garda che, in qualità di responsabile dei corsi Guida, riusciva a trasmettere a tutti noi la passione per la professione e per il soccorso alpino valdostano, di cui fu il padre fondatore. Di lui ricordo in particolare il giorno che mi chiamò, assieme ad altre guide, per recuperare il corpo di un giovane alpinista caduto al pilone centrale del Freney. Fu un intervento difficile e toccante per me, perché conoscevo il ragazzo. Era la prima volta che si faceva un intervento lassù, in un ambiente così severo, scendendo lungo la cresta, dopo essere stati depositati sulla cima del Monte Bianco da un elicottero francese con le attrezzature necessarie al recupero, tra cui cavetti d’acciaio e un verricello da azionare manualmente.

I miei ricordi vanno anche a Giorgio Bertone, grande Guida e Istruttore, dalle vedute professionali innovative. Ci dimostrò che, con le capacità e una preparazione adeguata, si potevano accompagnare i clienti su itinerari molto difficili, anche al di fuori del proprio territorio. Giorgio era pure un esperto tecnico-soccorritore: ci insegnò insieme a Franco le varie tecniche di recupero da loro elaborate sia con mezzi tradizionali sia con attrezzature innovative, che permettevano di intervenire in situazioni molto complesse.

Nel 1977, con Guido Azzalea e mio cognato Roberto Francesconi, iniziai ad esplorare ed attrezzare alcuni itinerari di arrampicata sul Paretone della Corma di Machaby, tra cui la classica via del Banano. Si scalava con gli scarponi di cuoio e non esistevano ancora gli spit.

Nel corso degli anni, o per lavoro o per piacere, ho girato tutta la catena alpina, ho frequentato diverse falesie e ho viaggiato per conoscere e salire montagne in vari continenti: Asia, Africa e Sudamerica.

Nell’autunno del 1979 feci conoscenza con l’arrampicata moderna-sportiva della Yosemite Valley. Ne avevo già sentito parlare dai nostri valdostani Giorgio Bertone e Lorenzino Cosson, che già nel 1974 vi erano stati, realizzando la prima scalata italiana del Nose al Capitan. Grazie all’interessamento di Lorenzino si riuscì a trovare nelle ditte Fila e San Marco la sponsorizzazione, che permise a me e ad altre guide valdostane di vivere questa importante esperienza.

Arrivato nella Yosemite Valley, rimasi impressionato dalla maestosità del Capitan, dagli arrampicatori stanziali del “Camp 4” e dalle varie attrezzature, per me del tutto nuove, che utilizzavano per proteggersi e assicurarsi nell’arrampicata. Arrivammo lì con le nostre abituali attrezzature e calzature. La ditta San Marco ci aveva fornito dei bei scarponi di plastica, oltre a prototipi di scarpette di arrampicata da sperimentare. L’approccio all’arrampicata dei “local” era molto differente dalla nostra: essa poteva anche solo essere finalizzata al gesto atletico sui grandi massi del fondovalle o al superamento dei passaggi di maggiore difficoltà senza necessariamente affrontare vie di più tiri. Chi percorreva le vie lunghe doveva lasciarle come le aveva trovate, vale a dire unicamente con le soste attrezzate e gli spit indispensabili, dove non era possibile proteggersi diversamente. Ci procurammo quelle attrezzature a noi prima sconosciute dal nome friend, nuts, cliff,… le quali ci permettevano di proteggerci in modo veloce sui tiri.

Alcuni ricordi mi tornano alla mente: ero sulla via Salathé, in un passaggio obbligato, per me al limite, con la protezione lontana sotto i miei piedi. Per un attimo ebbi la sensazione di sentirmi più giù che su! Altro ricordo: la traversata aerea alla “tirolese”, affrontata per esigenze cinematografiche, dalla punta della Lost Arrow, con gran vuoto sottostante. E ancora, l’incontro e l’arrampicata con una delle più forti scalatrici americane: volle fare lei il primo tiro della via, per mettermi alla prova e valutare se poteva fidarsi a lasciarmi andare da primo di cordata.

L’esperienza della Yosemite Valley fu molto utile e modificò in parte il mio modo di vedere e vivere l’arrampicata.

Detto ciò, dagli anni ottanta in avanti, lascio ora la parola a chi dopo di me ha vissuto l’incalzante evoluzione e diffusione dell’arrampicata sportiva.

Io, nel mio piccolo, ho continuato e continuo tuttora ad arrampicare, compatibilmente con i limiti dell’età e delle capacità, e continuo ad andare in montagna: ora non più per lavoro, ma per piacere che condivido con mia moglie, con gli amici e con le mie care nipotine.

Concludo ringraziando Andrea che, nel chiedermi di scrivere qualcosa sulla mia esperienza di montagna, mi ha fatto emozionare nel rivivere i miei lontani ricordi.”

Fausto Lorenzi

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